La tecnica Raku
Necessarie a questo tipo di lavorazione sono argille particolarmente resistenti, a cui viene aggiunto anche silice o cotto macinato per ridurne la possibilità di rottura, a causa del violento shock termico a cui vengono sottoposte. La tecnica tradizionale è a mano. Una volta formato l’oggetto, esso viene fatto asciugare e sottoposto a una prima cottura. Una volta cotto, viene applicato il rivestimento superiore e si effettua una seconda cottura, che è la vera e propria cottura raku. Durante questa fase, il rivestimento esterno raggiunge il punto di fusione e si iniziano a formare piccole crepe superficiali. Si procede dunque a chiudere del tutto il forno, in modo da ridurre gradualmente fino a eliminare la presenza di ossigeno. Il fumo interagisce con gli elementi chimici del rivestimento e dell’impasto creando gli effetti tipici di questa tecnica, oltre ai riflessi metallici e lucidi. In ultima istanza, si procede con la pulizia e la rifinitura dell’oggetto. Questa tecnica si presta facilmente a esperimenti e variazioni di ogni tipo.
La Cottura raku
La cottura raku, che equivale a una seconda cottura, si effettua in specifici forni dalla forma a campana, fatti di fibre di ceramica leggera o mattoni refrattari non cementati, dove la temperatura raggiunge all’incirca 950 - 1000 °C. Una volta che il colore del forno è virato verso un arancio chiaro, l’oggetto viene estratto e, secondo la tecnica tradizionale, deve essere immerso in acqua. L’oggetto viene dunque pulito con cura per far emergere i riflessi metallici, che si formano in assenza di ossigeno ad alte temperature. Ciò influisce anche sul colore dell’argilla non smaltata: in assenza totale di ossigeno è nera, parziale tende al grigio. In origine, i pezzi erano invece cotti a contatto diretto con la fiamma, in forni completamente chiusi per evitare l’entrata di aria e quindi di ossigeno dall’esterno. I combustibili, per sostenere la fiamma, procedevano a consumare l’ossigeno. Recentemente, un’altra tecnica che viene usata è la cottura in forni metallici ermetici riempiti di materiale combustibile, come segatura, pezzi di legno e carta.
La storia dal raku
La tecnica raku si racconta sia stata inventata da un artigiano originario della Corea, Chojiro, durante l’epoca Momoyama (XVI sec.). All’origine, essa doveva fornire una facilitazione nella realizzazione delle piccole ciotole per la cerimonia del tè, cha-no-yu, per un maestro della quale, Sen Rikyu, essa fu creata. Il nome Raku, che identifica uno stato generale di benessere e felicità, deriva da un dono fatto al figlio di Chojiro, ovvero un sigillo recante l’ideogramma corrispondente. E’ anche il nome della zona di Kyoto da cui veniva estratta l’argilla per le ceramiche durante l’epoca Momoyama. Raku diventa quindi il cognome della discendenza di Chojiro, che porta avanti la tradizione di questa ceramica da ben 15 generazioni. Due secoli dopo, questa tecnica venne illustrata puntualmente in un manuale, e da allora il raku iniziò a diffondersi e a essere praticata in molte officine, anche al di fuori del Giappone. Alcune ceramiche raku, particolarmente preziose e del tutto assimilabili a opere d'arte, sono esposte in musei e collezioni private.
I colori raku
Tutti gli smalti usati nel raku hanno come caratteristica comune il loro basso punto di fusione e un numero abbastanza limitato di elementi di composizione, come borace, caolino, carbonato o ossido di piombo, colemanite e silice. Possono essere usate fritte macinate a base di piombo o borace, singole o in combinazione, o anche uno smalto per maiolica, opportunamente corretto al 50% con cristallina piombica, sodica o boracica affinché diventi più trasparente e meglio stendibile. Nel raku tradizionale si utilizza una cristallina con poco materiale opacizzante, alla quale vengono aggiunti ossidi metallici per fornire la colorazione: ossido di rame per il verde con riflessi dal rame al rubino, al blu, fino all'oro in riduzione d'ossigeno; ossido di cobalto per il blu o l’azzurro se mescolato allo stagno; ossido di ferro rosso per gialli, bruni, fino al grigio verde. L'effetto finale fornirà una colorazione incostante, difficile da prevedere o far aderire a un disegno preventivato, che comporta la vera bellezza e particolarità di questa tecnica così antica eppure così contemporanea.